Premesso che gli argomenti che usiamo nei ricorsi avverso le cartelle esattoriali sono molteplici e molto più ampi di quelli qui riportati, in essi ricorsi, innanzitutto, utilizziamo tutte quelle ordinarie eccezioni frutto dell’esperienza di questi decenni di lavoro professionale.
Ad esse però aggiungiamo alcune altre a partire dall’eccezione di impossibilità materiale.
Eccezione che, in un arco temporale di certo più breve di quello dei tre gradi, riteniamo debba necessariamente essere accolta stante la palese, illegittima, irragionevolezza delle aliquote, e la sempre più veemente reazione sociale.
Adduciamo cioè che – non solo i tributi sono illeciti (servendo essi a null’altro che a ‘pagare’ alle banche centrali il denaro inverato con denaro da inverare, che lo Stato dovrebbe invece produrre a costo zero) – ma sussiste inoltre l’impossibilità materiale di pagarli (oltre che per l’assurdità delle aliquote e per i motivi che riguardano specificamente ogni singolo ricorrente, che descriviamo nei singoli ricorsi) anche in conseguenza (anche) dell’indetraibilità delle spese inevitabili.
Ciò per i lavoratori sia subordinati che autonomi, che per le società.
Impossibilità che emerge ora che queste assurde cifre lo Stato le vuole davvero, perché in passato la cosiddetta ‘evasione’ era una prassi, per cui le aliquote erano oggetto di scarsa attenzione sociale.
Impossibilità perché – non essendo deducibili le spese inevitabili, quali il cibo, l’abbigliamento, i trasporti, la casa – le aliquote (a loro volta assurde) si abbattono su un reddito che non esiste.
Facciamo per primo l’esempio di un lavoratore autonomo.
Consideriamo un professionista con famiglia e un reddito ‘netto’ (ma solo delle spese che gli è consentito detrarre) di 40.000 euro annuali.
Un ‘netto’ che non è netto affatto perché, oltre ai costi che si considerano deducibili, dovrà sostenere le spese non deducibili ma inevitabili sopra accennate, sicché gli rimarranno alla fine diciamo 10.000 euro.
Ne deriva che, sul falso netto di 40.000 euro, con un’aliquota complessiva effettiva diciamo del 50%, gli si chiedono 20.000 euro, che equivale a dire 10.000 euro in più di quello che gli è rimasto e quindi un’aliquota del 200%.
È chiaro invece che gli si dovrebbero, al limite (se i tributi non fossero illeciti) chiedere le tasse solo sul vero netto (10.000 euro), quindi 5.000 euro.
Riconoscimento dell’impossibilità di pagare che va esteso anche all’IVA e alla ritenuta d’acconto perché, quale che sia il dovere da compiere, e dunque anche se si tratti del dovere di versare ciò che si è riscosso appunto solo per versarlo (come l’IVA e la RA), non si può sanzionare l’inadempimento quando si sia resa globalmente problematica la condizione economica, e a quel punto anche esistenziale, del contribuente, perché ciò configurerebbe l’obbligo giuridico di avere una capacità sopra la media di trovare soluzioni.
(IVA che andrebbe comunque ricalcolata detraendo anche quella sui costi inevitabili e indetraibili).
Occorrerebbe in definitiva forfettizzare le spese inevitabili, consentirne la detrazione dal reddito lordo, e solo sul residuo sarebbe logico chiedere i tributi.
Né cambia nulla il fatto che, per il lavoro subordinato, la tassazione è alla fonte (ma la ritenuta d’acconto è prevista anche per i lavoratori autonomi).
Consideriamo ad esempio la busta paga di gennaio 2013 del sig. MD (un caso reale).
Ebbene, MD, a gennaio 2013, ha riscosso 1.852 euro rispetto a un lordo di 3.883 sborsati dal datore di lavoro, il 52,30% dei quali, ovvero 2.031 euro, sono stati assorbiti dai tributi.
Con il risultato che, poiché ad MD, pagate le spese inevitabili, rimangono al massimo (se sa fare i miracoli), diciamo 200 euro, avrà pagato tributi per oltre dieci volte il suo vero reddito.
Un’impossibilità di pagare che per i lavoratori subordinati ha connotazioni diverse, ma sussiste lo stesso, perché deve essere rapportata a questo stadio della civiltà e dell’economia, per cui bisogna partire dal presupposto che, ad esempio, cento anni fa, la ricchezza consisteva nell’avere da mangiare, mentre oggi è la povertà a consistere nell’avere solo da mangiare l’essenziale.
Ne deriva che, mentre per i lavoratori autonomi l’impossibilità è constatabile materialmente, perché si configura come un non avere più il denaro sul quale il fisco vuole i tributi, per i lavoratori subordinati l’impossibilità è giuridica, perché le detrazioni li spingono a livelli tali che essi, escogitando in qualunque modo delle soluzioni, riescono a realizzare delle forme di sopravvivenza che in realtà sono possibili anche con 100 euro al mese, o con nulla (fruendo della pietà pubblica o privata), ma non sono inquadrabili nello Stato di diritto.
Diverso è il problema per le società, che non hanno spese ‘personali’, ma anche per le quali sussistono non modesti costi ineludibili e indetraibili, e in ogni caso sono soggette ad aliquote che consentono la loro sopravvivenza solo mediante il falso in bilancio, l’evasione o l’elusione; che pertanto non possono essere considerati reati.
Vanno in sostanza dichiarate incostituzionali tutte le norme che, nel dettare i criteri per la determinazione dell’imponibile, non consentono la detrazione delle spese inevitabili.
ALM